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Tanto tuonò, che piovve.

Tra la fine dello scorso mese di agosto e l’inizio di settembre, la redazione di Charlie Hebdo, il giornaletto francese del quale tutti imparammo il nome, in occasione della pubblicazione delle vignette satiriche su Maometto e del conseguente sanguinoso attacco alla sua redazione del 2015, comunicò al momdo la volontà di pubblicare di nuovo le stesse strisce, in nome della volontà di non piegarsi ad alcun tipo di minaccia e di ricatto.

Anche ai meno addentrati al tema della minaccia terroristica di origine islamista, quella apparve come una scelta inappropriata e  capace, senza dubbio alcuno, di rimettere la Francia, Parigi, ed i redattori della rivista, al centro del mirino della compagine terroristica globale o di ciò che ne resta, dando l’opportunità ai sopravvissuti di quello che fu l’esercito del Califfo ed all’ormai sparuto, ma non per questo meno pericoloso gruppo di reduci di al-queda, di dare prova della loro esistenza in vita e di una intatta capacità di azione pianificando ed attuando una nuova serie di attacchi, verosimilmente nel cuore della vecchia Europa.

Quanto accaduto oggi poco lontano dalla Bastiglia ed in prossimità della vecchia redazione di CH, sotto forma di un attacco con arma da taglio ad opera di un diciottenne di origini pakistane ed un suo complice, dimostra che le preoccupazioni espresse da moltissimi esperti e, più modestamente dal sottoscritto, erano tutt’altro che immotivate, anche se, fortunatamente, l’esito del pur gravissimo gesto, è stato certamente di minore portata rispetto alle volontà degli autori e certamente meno eclatante se paragonato con quanto ci capitò di veder succedere a Parigi nel 2015 e l’anno successivo.

Credo però che commetteremmo un errore, se immaginassimo che l’attacco perpetrato oggi sia l’unica risposta che sia lecito attendersi alla provocazione, l’ennesima, portata dagli autori di CH un mese fa. L’ossessione dei combattenti del Califfo ed ancora prima di quelli ispirati dalle teorie e dalle gesta di Osama bin Laden, è sempre stata quella di “portare la guerra” nelle nostre città, e la guerra non la si porta attaccando con un machete e ferendo, sia pure in maniera seria, quattro persone. La guerra, per come la intendono loro, e per come la percepisce chiunque sappia come davvero funziona, la si attua combattendo con armi da guerra, assaltando, colpendo e portando il terrore dove non ci si aspetta che possa e debba esserci.

Reperire armi non è mai stato un problema per la criminalità e per i terroristi e non lo è di certo in Francia, dove ad esempio nell’area di Marsiglia, non si sono mai interrotti i regolamenti di conti compiuti a colpi di AK74 ed altre armi semiauto, e dove anzi, in questi ultimi mesi, gli assassinii sono ripresi in grande spolvero.

Probabilmente sarà solo una mia fissazione, ma ho l’impressione che non sia affatto fuori contesto immaginare che qualcuno fra le migliaia di personaggi vicini alla galassia di Daesh o dei criminali che a vario titolo hanno partecipato alla stagione di terrore consumatasi tra Siria ed Iraq od in Libia in questi anni, abbia in serbo qualche brutta sorpresa e non invidio di certo gli uomini e le donne dell’anti terrorismo francese che devono fare i conti con i mille e più soggetti da attenzionare perché classificati come pericolosi per la sicurezza nazionale.

Mantenere la guardia altissima e non pensare a questo tipo di minaccia come a qualcosa di ormai desueto, credo siano gli unici modi per evitare una possibile escalation, alla quale per altro la Francia ci ha tragicamente abituato.